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Denis Mukwege racconta al Gabbiano i grandi problemi del Congo e lo sfruttamento di tanti giovani

Denis Mukwege racconta al Gabbiano i grandi problemi del Congo e lo sfruttamento di tanti giovani

SENIGALLIA – Al Gabbiano l’occasione è stata davvero unica e rara: un premio Nobel per la Pace in città, per la prima volta, a disposizione del pubblico – numerosissimo – dell’Arena estiva. La serata ha visto l’intervento del dottor Denis Mukwege e la proiezione del film “Il sogno di Samira”, alla presenza del regista Nino Tropiano, ma anche la partecipazione di moltissime associazioni no profit del territorio.

“Come Conferenza episcopale e come Chiesa” ha esordito Dino Angelaccio “abbiamo deciso di sostenere il lavoro del dottor Mukwege, uomo e medico con una storia straordinaria, il cui impegno è totalmente rivolto alla cura e alla rinascita di donne e bambini vittime di violenze inimmaginabili, in un territorio in cui la spirale di violenza ha assunto contorni che si fa fatica a raccontare. Rivolgo il mio grazie al Presidente Mattarella per aver dedicato un ascolto vero e sincero a Denis Mukwege: dobbiamo svegliare le coscienze e chiedere alle istituzioni internazionali di prendersi le proprie responsabilità. Denis per noi è una luce e una speranza”.

“Essere riuniti qui mi fa sperare che la pace sia possibile” ha cominciato il premio Nobel per la Pace. “La guerra di cui parliamo non è una guerra etnica, non è di religione, e ufficialmente non è nemmeno una guerra tra Stati che si dichiarano guerra. Sappiamo che è iniziata nel 1996/97, a seguito della crescente richiesta di minerali necessari per il funzionamento degli apparati legati alle nuove tecnologie, che proprio in quegli anni hanno iniziato a svilupparsi in modo evidente, e che necessitavano di un grosso quantitativo di minerali. Minerali che si trovano in percentuale altissima nella Repubblica Democratica del Congo. I 6 milioni di morti e i 7 milioni di sfollati interni, numeri impressionanti e superiori anche alle guerre più studiate, sono il risultato di questa guerra per il controllo dei minerali e delle risorse strategiche. Siamo di fronte a un’emergenza economica, perché noi dipendiamo dalle tecnologie, cellulari, smartphone, computer, senza i quali non possiamo più vivere. Da questa prospettiva siamo tutti complici. Sono convinto che con la pace possiamo continuare ad avere la stessa tecnologia, magari pagando qualcosa in più ma con la coscienza tranquilla. I criminali approfittano di questa situazione e sfruttano le persone che lavorano nelle miniere di coltan e cobalto”.

Mukwege ha poi parlato della sua professione di medico: “Ho avuto la vocazione di medico fin da bambino, a circa otto anni e negli anni della tesi ho sviluppato l’idea di aver intrapreso la strada giusta; ogni giorno mi capitava di vedere donne arrivare a morire in ospedale perché spesso dovevano affrontare un cammino a piedi di 40 km per raggiungere la clinica in cui poter partorire. Per questo ho scelto ginecologia e ostetricia, per provare ad abbassare la mortalità materna. Poi però ho dovuto assistere alle atrocità della guerra, che non si imparano a scuola. Ero l’unico ginecologo della regione e barbarie terribili si palesavano ai miei occhi con l’arrivo in ospedale di donne e di bambine, anche piccolissime: non potevo immaginare che il mondo potesse arrivare a questo punto, così come non potevo immaginare che il mondo non potesse reagire di fronte a questo orrore.

Lo stupro è un’arma di guerra e il 30% delle donne che partoriscono sono bambine, vittime di stupro. Il cerchio della violenza è senza fine, sono donne traumatizzate per tutta la vita. Penso che annullare la donna, distruggerla con uno stupro è un’arma spaventosa di dominio, una dichiarazione di forza, che non uccide solo la donna ma l’intera società. Anche oggi, anche in Europa, come in tutte le guerre, lo stupro è un’arma e noi dobbiamo combatterla con tutte le forze perché è l’umanità intera che viene violata. Cosa mi tiene vivo, cosa mi dà la forza? La certezza che se non ci fosse la forza delle donne io non potrei continuare a fare quello che faccio”.

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